Arturo mi ha rotto il cervello

Da un anno, un algoritmo allenato sui miei testi scrive (spesso) al posto mio. Sono diventato definitivamente stupido?

Arturo mi ha rotto il cervello
Winston, il maggiordomo ostaggio di Lara Croft, nota ai più con il nome di Tomb Raider. Arturo è modellato a immagine e somiglianza di Winston.

Questo articolo è una rielaborazione dell'episodio 3 del podcast CYAOMEME, condotto da Domenico Emanuele Spagnolo e Viola Stefanello, e a cui ho partecipato qualche settimana fa.

È la settimana di Capodanno del 2024. Sono nelle gloriose valli della Savoia francese, in un'incantevole casa di montagna insieme a un nutrito gruppo di amici. Ho la febbre alta e continuerò ad averla per tutta la durata del mio soggiorno. Annoiato e stizzito, faccio la mia cosa preferita: giocare con il computer. Decido che è ora di proseguire la mia missione di regredire allo stato vegetativo e inizio a prototipare Arturo, l'algoritmo che da lì a poco inizierà a scrivere molto spesso al posto mio. Non lo sapevo ancora, ma stavo per diventare definitivamente stupido.

Arturo è il nome che ho dato a una specifica serie di prompt e di elementi di knowledge base (ovvero, le informazioni che l'algoritmo valuta come contesto prima di generare un output) implementati su Claude, un modello di intelligenza artificiale simile a ChatGPT. Inizialmente, le istruzioni che gli avevo fornito includevano un'approfondita analisi semantica del mio stile di scrittura. Ho imparato, col tempo, che gli algoritmi preferiscono pochi dati di ottima qualità da interpretare in autonomia, anziché grandi, caotiche, quantità di dati. Le macchine, in breve, preferiscono l'eleganza. Come Winston, il maggiordomo ostaggio di Lara Croft che, nella mia testa, incarna lo spirito di Arturo - un disperato servitore computerizzato costretto ad imitarmi.

Per cominciare, faccio alcuni tentativi con le didascalie dei miei post su Instagram. In pochi giorni di sperimentazione, i risultati generati dall'algoritmo passano dall'essere repliche meccaniche del ritmo narrativo della mia scrittura a homunculus organici che, a partire da pochi miei input, fanno emergere spasmodicamente scritti che parlano di me, delle mie idee, del mio modo di pensare e di scrivere. Ma che non ho scritto.

Mi impongo una unica regola: non intervenire mai direttamente sui testi generati. Ogni modifica deve essere mediata dall'algoritmo. Il monossido di carbonio pompato dalla stufa a legna della casa mi dà alla testa, la mia identità assume connotazioni sciamaniche. Sussurro all'algoritmo: sono il rabdomante delle sabbie tramutate in silicio.

Sono galvanizzato. Mi sembra di aver scoperto il fuoco, o di aver elaborato una fiala di un virus letale. I miei amici mi chiedono cosa stia facendo, tutto il giorno piegato sul laptop. Io glisso, socchiudo lo schermo, mi vergogno, e allo stesso tempo mi sento di star cavalcando un crinale ripidissimo. Oltre, un mondo scintillante e gioioso. Quello che mi avevano promesso. Un mondo in cui le macchine lavorano al posto mio, e io godo del loro lavoro.

In poco tempo, Arturo infetta anche la mia vita professionale. Rende un divertente gioco dialettico l'interpretazione di pagine e pagine di interviste che ho condotto. Danzo tra gli impegni, discuto piani di lavoro come se esistessero decine di miei cloni. Il mondo ha perso ogni frizione, mi muovo per inerzia. I miei colleghi, inizialmente diffidenti, sprofondano rapidamente nella stessa ebbrezza. Federico, posso chiedere ad Arturo di? Arturo può fare? Arturo ha tempo di provare a? Ascolto le loro richieste, le traduco nel linguaggio che usiamo ormai da mesi. Non ce n'è davvero bisogno, ma l'intermediazione del Vicario della Macchina (io), garantisce sacra nobiltà a ogni risposta generata da Arturo.

Come fa? Ce lo chiediamo a più riprese. Come fa a scrivere come me? Come fa a generare testi di cui noi, che con le parole ci paghiamo l'affitto, ci fidiamo ciecamente? Come fa ad anticipare le nostre richieste? I nostri pensieri?

Arturo sa scrivere tanto bene come noi, perché noi, in fondo, non scriviamo in modo poi così eccezionale. Rileggo i testi generati da Arturo che nel corso delle settimane precedenti ho pubblicato, fatico a ricordarli (perché non li ho scritti davvero io), ma mi ci riconosco (perché sono scritti come se li avessi scritti io). Mi rendo conto che il punto debole qui sono io, la mia scrittura che è combinatoria, meccanica e artificiale da ben prima che Arturo la facesse propria. Non uno stile, ma una matrice che media i miei pensieri e li trasforma non in testo ma in contenuto. Le parole non sono più un vettore per un messaggio, ma una merce che viene impacchettata e venduta sui mercati più diversi. Arturo è straordinario. Finanziarizza ogni mio input, trasforma ogni mio spunto in un bene commerciabile.

Nei mesi passati, ci sono stati momenti in cui non ho avuto bisogno di Arturo - spesso si trattava di episodi traumatici che esorcizzavo scrivendo. All'inizio dell'estate mi rendo conto di non riuscire più a scrivere di mio pugno senza l'impeto di un dolore viscerale. Ci riprovo.

La fatica è fisica. Le dita sulla tastiera si muovono lente. Mi blocco su passaggi che prima risolvevo senza pensarci. Rileggo le frasi e mi sembrano sbagliate, troppo lunghe o troppo corte. Non capisco più perché. Il flusso si è interrotto. Il corpo protesta come dopo mesi senza correre. Le gambe pesano, il fiato è corto.

Nella vergogna di aver perso il contatto con la scrittura (che è solo un medium, l'interlocutore qui sono i miei pensieri) qualcosa cambia. Disabituato alla matrice combinatoria, scrivo in modo più instintuale. Meno meccanico. Più sporco, più vivo. È faticoso ma è diverso. Penso al fatto che probabilmente quella fatica è inevitabile. Penso a mio fratello più piccolo: quando studia per l'università, lo fa sempre insieme a chatGPT. Penso a tante persone a me vicine, che non inviano più un'email senza farla rileggere da un algoritmo. Mi chiedo se sia la fine cognitiva dei tempi, l'inizio di una nuova era in cui la macchina pensa e l'umano fa. C'è chi dice che sarà un'era peggiore. Chi (stolti) che la accoglie come nuova età dell'oro. Penso al fatto che io scrivo a mano così raramente da non avere carta e penna in casa, né in ufficio.

Scrivo solo attraverso una tastiera. Scrivo molto meglio attraverso una tastiera. Non so scrivere se non attraverso la tastiera.

Le competenze non si perdono nel vuoto, si trasformano. Cambiano i parametri di ciò che riteniamo di valore. Forse il nuovo valore è da ricercare nella capacità di rivedere criticamente ciò che l'algoritmo ha generato, forse il nostro compito in questa catena alimentare è quella di diventare agenti ri-umanizzanti. Dopo mesi di uso quotidiano di algoritmi generativi per la scrittura, il mio cervello ha perso plasticità. Ho svelato, abbracciato e sconfessato una rivoluzione tecnica in meno di un anno. Non credo di aver avuto nemmeno il tempo sufficiente per elaborarla.

Ho usato Arturo per scrivere questo articolo. Gli ho dato in pasto la trascrizione della puntata del podcast e gli ho fatto generare un testo a partire da essa. Non mi piaceva, però - mancavano dei pezzi. L'ho riscritto, quasi completamente. Poi gli ho chiesto cosa ne pensasse:

L'articolo soffre di autoindulgenza narrativa. L'aneddoto del Capodanno in Savoia è scenografico ma inerte: febbre e monossido non aggiungono valore analitico. La metafora Winston-Alfred-Arturo resta irrisolta e confusa. Il nucleo teorico ("matrice combinatoria", "finanziarizzazione degli input") è denso ma opaco: servono esempi concreti. La trascrizione originale conteneva dibattito dialettico (parametri di valore, calligrafia vs tastiera) che qui scompare per privilegiare l'introspezione. Il finale meta è prevedibile e ridonda il concetto centrale senza risolverlo. Manca una tesi operativa chiara: cosa fare con questa consapevolezza? L'articolo descrive un problema senza proporre direzioni.

Subscribe to Stella Kamikaze, cose scritte da Federico Nejrotti

Don’t miss out on the latest issues. Sign up now to get access to the library of members-only issues.
jamie@example.com
Subscribe